Saskia Sassen
Riparlando delle vostre città intelligenti

da: whatmatters.mckinseydigital.com, febbraio 2011
traduzione di Franca Bossalino

Gran parte di ciò che è definito con il termine ‘smart city’ è noto da più di un decennio. Un pezzetto alla volta abbiamo ristrutturato i vari sistemi e le reti  urbane attraverso dispositivi che calcolano, misurano, registrano e collegano. Per esempio, l’Amsterdam Innovation Motor (AIM), una iniziativa   pubblico-privata che ha lo scopo di identificare il potenziale tecnologico  intelligente in un’ampia gamma di situazioni, ha escogitato un modo per connettere le navi ancorate nel porto alla rete elettrica, liberandole dalla dipendenza dai generatori diesel.

L’Università olandese leader per la scienza e la tecnologia – la Delft University of Technology- ha sviluppato un’ampia gamma di utili innovazioni tecniche (anche l’ultimo ombrello a prova di uragano di cui sono un’orgogliosa proprietaria e voglio mettere in guardia i lettori che la sua bizzarra forma aerodinamica attirerà l’attenzione della strada). Una visita al loro website è un viaggio attraverso le menti di brillanti tecnologi, architetti, urbanisti e scienziati- tutti, sembra, con un forte senso della città. L’euforia attuale, comunque, si è concentrata attorno a una visione più costosa, difficile da realizzare. Piuttosto che ristrutturare le vecchie città, la tendenza oggi è quella di costruire da zero intere città intelligenti in pochi anni (da cui il nome alternativo di “instant city”) a un costo medio che va dai 30 ai 60 miliardi di dollari- una quantità di soldi enorme anche con la svalutazione del dollaro... Costruire tale città sotto tutti gli aspetti è un’impresa scoraggiante, ma credo che la sfida maggiore sia, piuttosto, concettuale: è il bisogno di progettare un sistema che metta tutta la tecnologia veramente al servizio degli abitanti e non viceversa. L’esempio più noto di una città intelligente, “istantanea” è l’International Business District di Songdo, una città intelligente vicino a Seoul, che la  Cisco Systems ha dotato di sensori e monitor all’avanguardia -caratteristica descritta in modo umoristico da John  Kasarda e Greg Lindsay nel nuovo libro “Aerotropolis: il modo in cui vivremo in futuro”.

Le attrezzature multifunzionali della città sono capaci di aprire e chiudere, spegnere e accendere, fermare o attivare ogni cosa, dal tostapane alla video conferenza  col vostro capo, alla videocamera per vedere vostro figlio che gioca. Tutto ciò può essere fatto sia da casa che dall’ufficio, sebbene la distinzione tra i due luoghi diventi sempre più sfocata in una città completamente “sensorizzata”. Sondo si basa anche sul riciclo e sul verde. E’ costruita su suoli bonificati e usa le tecnologie verdi più recenti. Un altro esempio ben noto, è quello di Masdar City ad Abu Dhabi. Progettata per essere una città a zero emissioni, è più scientifica, eppure, sotto molti aspetti, è meno intelligente di Songdo. E’ molto facile sottolineare il lato commerciale di Masdar come vetrina delle grandi firme mondiali. Ma credo che sia scorretto guardarla semplicemente come un evento commerciale. La descriverei anche come un laboratorio o come la definiscono gli scienziati sociali, un esperimento naturale: un pezzo di vita reale che funziona come una finestra che ci permette di conoscere una condizione astratta e complessa (per esempio, una città perfettamente intelligente e verde) che non può essere replicata nel laboratorio dell’università.

Masdar ha, come tutte le città, un mondo superiore e un mondo inferiore, ma in questo caso, il mondo inferiore consiste in molto di più dei soliti impianti e i soliti tunnel. A Masdar, comprende anche  un tesoro nascosto di tecnologie avanzate per gestire tutti i fondamentali sistemi urbani- tutto quello che fluisce dentro e fuori, siano acqua o rifiuti, viene  misurato e monitorato e pertanto produce informazione. In questo senso, a Masdar tutto è considerato importante. Perfino i rifiuti non sono semplici rifiuti -sono fonti per costruire la conoscenza. Nello stesso tempo, la parte superiore di Masdar, costruita su una piattaforma sopraelevata per dare accesso agli impianti, è una vetrina con una enorme varietà di tecnologie verdi. Tutto ciò mi porta al secondo motivo per cui penso a Masdar come un laboratorio abitato: pochi posti al mondo sarebbero capaci di replicare Masdar. E’ un investimento pluri-miliardario per 40.000 residenti. Mentre il lavoro dell’AIM può essere replicato in tutto il mondo, sia nelle città ricche che in quelle povere, è improbabile che qualcuno replicherà Masdar.

All’altra estremità c’è anche la Cina che sta costruendo città- almeno 20 delle quali sono in corso di progettazione mentre scrivo. La Cina dovrà alloggiare ben oltre 300 milioni di persone nei prossimi anni. Le sue nuove città saranno progettate e intelligenti, ma non saranno delle piccole Masdar con i suoi fronzoli e i suoi lussi. Saranno città gigantesche. Avranno budget generosi di qualche centinaio di migliaia di dollari per piantare e mantenere milioni di alberi, e fortunatamente, avranno piste ciclabili e impianti fotovoltaici ovunque. Questo sarà un buon inizio concreto. Abbiamo bisogno di tutte e due le cose- il laboratorio per le soluzioni ideali e le soluzioni pratiche.

Si dice che la più intelligente tra tutte le smart cities sia PlanIT Valley, in costruzione vicino Porto, in Portogallo, fondata da Steve Lewis della Microsoft. Quello che la rende differente è che più che un insieme di sistemi intelligenti è un’urbanistica intelligente. L’idea è quella di costruire reti intelligenti che combinino diversi servizi elettronici che possono essere inseriti e rimossi. In altre parole, le organizzazioni incaricate dei sistemi hardware e software possono riconfigurarli con componenti riciclabili quando cambiano le esigenze. In tal modo, non è la tecnologia a controllare l’ambiente urbano; è l’ambiente a rimodellare la tecnologia. Con questa “architettura orientata ai servizi”, si raggiunge un obiettivo che è quello di ridurre gli sprechi derivanti dal progetto e dalle industrie di costruzione, estendendo la vita del progetto, del software e dell’hardware oltre la singola realizzazione.

La prima fase della costruzione della città intelligente è eccitante. La città diventa un laboratorio vivente per le tecnologie urbane intelligenti che possono gestire tutti i principali sistemi che una città richiede: acqua, trasporti, sicurezza, rifiuti, edifici verdi e energia pulita. L’atto di installare, sperimentare, testare o scoprire- tutto ciò può produrre innovazione sia rispetto alla pratica che a quello che esiste nelle menti degli scienziati del week end. Questo è eccitante. E questi sono progetti che coinvolgeranno gli inventori stranieri e locali, gli scienziati, i tecnologi, gli studi di architettura, gli artisti e i turisti curiosi che provengono da tutto il mondo. Questa fase probabilmente creerà una conversazione pubblica, non solo tra i residenti e gli amministratori della città ma anche orizzontalmente, tra i cittadini che si scambiano le proprie impressioni. Potrebbe portare a un nuovo tipo di rete open-source in cui, invece di esserci personale tecnico per individuare e risolvere i problemi di software e di programmazione, ci sarebbe una dimensione collettiva di aggiornamento e risoluzione dei problemi che coinvolge i cittadini in una specie di urbanistica libera.

Quella che mi preoccupa è la fase successiva; infatti, è carica di potenziale negativo. Dalla sperimentazione, dalla scoperta e dall’urbanistica libera, si potrebbe scivolare in uno spazio gestito in cui i “sensori” diventano “censori”. Quello che emerge come problema  riguarda la misura in cui queste tecnologie non sono state sufficientemente “urbanizzate”. Cioè non sono state fatte per operare all’interno di un particolare contesto urbano. Non si può semplicemente buttare una nuova tecnologia dentro uno spazio urbano. Consideriamo i tipi edilizi e l’architettura che sono cambiati all’improvviso e che si sono sviluppati nel mondo in risposta alle esigenze di una densità crescente. Masdar non ha niente a che fare con Songdo. Paragoniamo Dubai a Londra; tutte e due hanno centri densi, ma sono costruite in stili molto diversi. Ciò significa che i sistemi tecnologici che potrebbero funzionare bene in una città, potrebbero non funzionare in un’altra o dovrebbero essere completamente modificati per essere utili altrove.

Abbiamo bisogno di spingere oltre questa urbanizzazione della tecnologia, e in direzioni differenti. Ci sono delle qualità che noi, in Occidente, abbiamo associato all’urbanità- per esempio, un centro ad alta densità con spazi pubblici affollati dove operano le regole invisibili della convivenza, per cui, ad esempio, se si urta qualcuno non lo si fa per offenderlo come potrebbe essere in un altro posto. L’urbanità potrebbe assumere aspetti diversi in altre culture, compresi quelli che non sono riconoscibili agli occhi di un occidentale. Forse abbiamo bisogno di un’altra parola, un modo per aprirci ad altre possibilità. Cityness è un modo per estendere la categoria e consentire una variabilità maggiore di ciò che costituisce l’urbanità. Questo genera un intero campo di ricerca e di interpretazione e ci invita a riposizionare le nozioni occidentali  riguardo l’aspetto che le città dovrebbero avere, e ad esplorare una ben più vasta gamma di tecnologie costruttive e di spazi urbani.

In qualunque parte del mondo io vada, incontro tecnologi, urbanisti e artisti che stanno “urbanizzando” la tecnologia. Cloud9, un progetto sviluppato a Barcellona che unisce scienza, tecnologia e architettura, è un buon esempio, un esempio che attrae ogni genere di persone -bambini, professionisti e anche turisti. La città diventa uno spazio euristico; parla con i comuni residenti o con i turisti piuttosto che comandarli. Questa tecnologia diventa visibile ed esplicita e può essere capita da chiunque passi di lì. Ho a lungo pensato che tutte le più importanti infrastrutture di una città- dalle fognature all’elettricità, alla banda larga- dovessero essere inserite dentro mura e solai trasparenti a certi incroci stradali, come una fermata dell’autobus o una piazza pubblica. Se si riesce a vedere tutto si viene coinvolti. Oggi, che le mura sono gravide di software, perché non renderlo visibile? Tutti i nostri sistemi computerizzati dovrebbero essere trasparenti. La città diventerebbe letteralmente un dominio condiviso collettivamente.

La sfida per le città intelligenti è quella di urbanizzare le tecnologie che usano, per renderle rispondenti e disponibili per le persone alle quali influenzano la vita. Oggi, la tendenza è quella di renderle invisibili, nascondendole dentro i solai o dietro le mura, e pertanto mettendole al posto di comando piuttosto che farle dialogare con gli utenti. Questo ridurrà la possibilità che le città intelligenti avrebbero di promuovere l’urbanesimo libero -e questo sarebbe un peccato. Avranno una vita più corta, diventeranno obsolete presto. La loro urbanizzazione le aiuterebbe a vivere più a lungo, in quanto sistemi aperti soggetti a continui cambiamenti e innovazioni. Dopo tutto, questa capacità di adattamento è il modo in cui le nostre buone vecchie città sono sopravvissute alla ascesa e caduta dei regni, delle repubbliche e delle corporazioni.

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