Frances Moore Lappè
PENSARE COME UN ECOSISTEMA

“EcoMind: Cambiare il nostro modo di pensare per creare il mondo che vogliamo” (NewYork: Nation Books, 2011; ultimo capitolo)
in: www.ecoliteracy.org
traduzione di Franca Bossalino

La speranza non è un’utopia. Non è un’indole naturale con cui si nasce. E’ un atteggiamento nei confronti della vita che possiamo scegliere oppure no. Mi domando, comunque, se la mia speranza è efficace, se produce dei risultati o se è un nascondiglio in cui allentare le mie tensioni.
Quello per cui lotto è una speranza sincera. E’ un lavoro faticoso perché, innanzi tutto, bisogna, ‘mettere a posto’ il nostro modo di pensare. Dal momento che noi creiamo il mondo secondo  le idee che abbiamo, dobbiamo chiederci se le idee che abbiamo ereditato e assorbito nella nostra cultura, possano servirci. Solo se la nostra visione è una rappresentazione accurata  del modo in cui  il mondo funziona possiamo nutrire una speranza sincera ed efficace.
La buona notizia è che ci troviamo di fronte questa sfida storica, proprio quando la nostra comprensione della ricca complessità della vita e della stessa natura umana, si sta espandendo in modo esponenziale, Sono abbastanza sicura, per esempio, di non aver mai sentito la parola ‘ecologia’ fino a che non ho avuto 20 anni; quando  ho avuto la fortuna di sposare uno dei pensatori ecologici più brillanti e autorevoli del nostro paese, Marc Lappè, purtroppo defunto.
Oggi ci stiamo rendendo conto che l’ecologia non è soltanto un campo particolare della scienza, ma è  anche un  nuovo modo di conoscere la vita che ci libera dai fallimentari presupposti della visione meccanicistica del mondo.
In questo capitolo finale, c’è un invito ad esplorare che cosa significa pensare come un ecosistema. Poiché l’ecologia riguarda  la connessione e il cambiamento senza fine, la creazione di modelli di causalità che formano ogni organismo e ogni fenomeno, “pensare come un’ecosistema”, secondo me, significa vivere in un continuo “perché?”. Significa mantenere viva la vecchia mente di quando avevamo due anni che non accetta la risposta perché è così, ma insiste per sapere come qualcosa è successo. Significa comprendere che tutti gli organismi- compreso l’organismo umano- emergono con un potenziale specifico, ma che la sua espressione è in grandissima misura formata dal contesto.
Perciò, se vogliamo che la vita prosperi, domandiamoci soprattutto: quali condizioni migliorano la vita? E in modo più specifico: quali condizioni particolari fanno emergere il meglio della nostra specie?  La mia ipotesi è che siano necessarie tre condizioni: un’ampia e fluida distribuzione del potere, la trasparenza e l’assunzione della mutua responsabilità- le quali costituiscono almeno una buona parte della risposta.
Una mente ecologica è capace anche di vedere come la prosperità della nostra specie, attraverso la creazione consapevole del contesto essenziale alla crescita, determini il benessere e la continuazione delle altre specie; di capire se gli aspetti chiave della ecologia globale continuano ad essere utili per la sopravvivenza della vita.
Passando dai presupposti meccanicistici della separazione e considerando le nostre società come un insieme di ecosistemi, diventiamo curiosi di sapere  in che modo i vari aspetti interagiscono. Come scrive lo storico di Oxford Theodore Zeldin: “E’ solo la curiosità che non conosce frontiere che può essere efficace contro la paura”.
 Usando le nostre menti ecologiche, presto ci accorgiamo che nella nostra complessa ecologia umana, molte delle più importanti interazioni causali possono non colpire l’occhio immediatamente- proprio come accade negli ecosistemi più grandi: quando guardiamo una foresta, per esempio, noi vediamo distintamente gli alberi ma non vediamo che al di sotto della superficie della foresta gli alberi si intrecciano  per sostenersi reciprocamente- a volte attraverso le radici, altre volte attraverso “tappeti di funghi” come spiega Donella H.Meadows. I miceli, la parte dei funghi che sta sotto la terra, può creare tappeti di cellule che si estendono per migliaia di acri. Le implicazioni? Tagliare un albero non è mai solo tagliare un albero. Ogni azione ha molteplici effetti… E’ il contesto, stupido!
Pensare come un ecosistema significa vedere ogni cosa nel contesto. Con ciò intendo dire che, con una mente ecologica,ci rendiamo conto che quello che è”buono” in un contesto, potrebbe essere un disastro in un altro.
Penso innanzi tutto alla jatropha. L’avete mai sentita nominare? La jatropha è un piccolo albero i cui semi non commestibili sono ricchi di un olio che può essere trasformato in  carburante pulito. In alcune parti dell’Africa e dell’Asia rurali, questo olio libera i piccoli coltivatori da ore di lavoro quotidiano spese nella raccolta del   legname perpetuando la deforestazione. Cresce bene nei terreni poveri con poca acqua e può mischiarsi con altri raccolti, contribuendo a prevenire l’erosione. L’odore dell’albero respinge gli animali affamati, proteggendo i raccolti vicini. Un agricoltore povero vendendo l’olio di jatropha nel Mali, paese  dell’Africa occidentale, può raddoppiare il suo reddito nel primo anno piantando jatropha senza che diminuisca la produzione di altri raccolti nello stesso campo.
Lo jatropha non ha bisogno di pesticidi o di fertilizzant, oltre il  residuo che ritorna alla terra dopo che l’olio è stato spremuto dalle noci della pianta. Paragonate questi vantaggi con quelli di altre piante da carburante come  il mais e la canna da zucchero che attualmente sostituiscono le colture che potrebbero nutrire direttamente la popolazione e che consumano enormi quantità di acqua, di fertilizzanti e pesticidi. Anche l’ambiente oltre a i contadini poveri ne trae beneficio.
Adesso mettiamo la stessa pianta in un altro contesto.
Alcuni anni fail Goveno Indiano cominciò a sostenere la diffusione di grandi piantagioni di jatropha con l’obiettivo ambizioso di produrre dai suoi semi  abbastanza bio-combustibile per ridurre in modo significativo la dipendenza dal’importazione del petrolio. I risultati ottenuti nello stato meridionale di Tamil Nadu rivelano che la coltivazione di jatropha non è affatto vantaggiosa per i poveri. Come scrivono gli studiosi nel Journal of Peasant Studies “La coltivazione di jatropha favorisce i coltivatori ricchi.” Invece di aiutare la crescita dei raccolti locali, come era successo nel Mali, in India le piantagioni di jotropha  li hanno sostituiti,  contribuendo all’abbandono della terra da parte dei coltivatori poveri. Questo contrasto nella produzione riflette la rete delle relazioni in cui la pianta cresce.
Guardando attraverso una lente ecologica, ci rendiamo conto che quello che potrebbe essere percepito come un cambiamento individuale in una comunità- sia questa una animale, vegetale o minerale- può avere infinite ripercussioni. Sentendo pronunciare ad esempio, la parola “organico,”molti di noi vedono il verde- forse un cavolo riccio in un campo rigoglioso. Per la maggior parte della gente è un insieme di piante e di cibo senza pesticidi. Ma quando si impara  a pensare come gli ecosistemi, la parola “organico” può evocare associazioni più ampie. Uno studio recente delle Nazioni Unite Agricoltura Organica e Sicurezza del Cibo in Africa, scherza in modo elegante  su alcune possibili ripercussioni organiche che possono sorprendere.
I contadini  africani che allevano insetti benefici per controllare le pesti, come si riferisce nel Rapporto delle Nazioni Unite, hanno molte più conoscenze e abilità di quante ne avessero quando spruzzavano i pesticidi. Quando i coltivatori applicano la conoscenza indigena, sperimentano anche molto di più per risolvere i problemi invece di affidarsi alle istruzioni che provengono dall’industria dell’agricoltura. Immaginate  quanto sia maggiore la loro fiducia in se stessi e la resilienza nell’affrontare le sfide del clima.
Coltivare in modo organico porta anche un miglioramento della salute, ad esempio, riducendo la  malaria nelle zone tradizionalmente colpite. Inoltre, l’aumento del valore nutritivo dei prodotti organici,e la maggiore varietà di cibo, producono nel lungo termine un rafforzamento del sistema immunitario umano, particolarmente cruciale per i malati di HIV/AIDS. “Aumentare la vita di un genitore contadino colpito dalla malattia, potrebbe fare la differenza tra la vita e la morte per i figli che lascia”. Immaginate le conseguenze nei paesi in cui 11 milioni di bambini dell’Africa sub- Sahariana sono già orfani.
La coltivazione organica “può senza dubbio ridurre la povertà” grazie al fatto che l’aumento della produzione consente di vendere a prezzi più alti. Inoltre- poiché parte del reddito addizionale derivante da una maggiore produzione va a pagare le tasse scolastiche - cresce “l’educazione della comunità”.
Poi ci sono le ripercussioni sulle donne. In molte comunità che usano semi importati e sostanze chimiche, le donne non potrebbero comprarli e nemmeno ottenere un prestito per farlo. (In Africa le donne ricevono meno del 10% del credito destinato ai coltivatori più piccoli.) Il Rapporto ci dice anche che, poichè le pratiche organiche possono produrre più cibo, la fame sta costringendo le persone ad abbandonare la loro comunità. Infine, il clima: nel libro scritto da mia figlia Anna Lappè “Dieta per un pianeta surriscaldato” impariamo perché il sistema alimentare contribuisce all’emissione di circa 1/3 dei gas che riscaldano il nostro pianeta.
E’ chiaro che un cambiamento- l’agricoltura organica- non è affatto un cambiamento. Perfino M. S, Swaminathan- il celebre campione della Rivoluzione Verde degli anni’60 che io chiamo, “l’agricoltura della dipendenza”-per aver reso gli agricoltori dipendenti dai semi e dalle sostanze chimiche controllate dalle corporazioni)- adesso raccomanda di tener conto della direzione che l’Africa ci indica verso tecnologie “radicate nei principi dell’ecologia, dell’equità economica e sociale e della conservazione dell’energia”. A mio parere, il cambiamento di prospettiva di Swaminathan è una prova ancora più schiacciante del fatto che è possibile, per ciascuno di noi, ripensare anche i più solidi presupposti.



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