Il cambiamento di paradigma: dall'economia all'ecologia
Ruud Lubbers, 2005
da EARTH CHARTER IN ACTION
traduzione di Franca Bossalino
 
 

Nel 1960 vivevo, come oggi, a Rotterdam- la mia città natale- vicino al fiume Maas. Il suo porto era diventato uno dei più grandi del mondo per l’approvvigionamento, esportazione e importazione, delle merci dal e al cuore dell’Europa. Intorno al porto l’industria chimica si stava sviluppando rapidamente. L’Olanda prosperava, ma mi accorgevo che questo aveva i suoi costi.
Il quartiere stava cambiando. Quando ero giovane vedevo le volpi nei prati; adesso non c’erano nemmeno i pesci nel fiume. Giocando nel giardino con i miei nipoti, sentivamo l’odore delle sostanze chimiche e disegnavamo con le dita sulla polvere nera che si accumulava sul tavolo. Il fiume era tanto inquinato che ci si potevano sviluppare le fotografie!
Fu allora che cominciai a preoccuparmi, da giovane padre e da uomo d’affari. La città economicamente prosperava e si espandeva con la crescita del commercio internazionale, ma qualcosa doveva cambiare nel suo impatto ambientale. Quando, nel 1971, lessi ‘I limiti della crescita’ del Club di Roma le mie idee si rafforzarono. Questo Rapporto riguardava le tendenze globali e considerava l’economia e l’ecologia in una prospettiva più ampia. Era un’estrapolazione di tendenze preoccupanti per la natura e, quindi, per il genere umano. In retrospettiva, qui c’erano già i semi del mio sviluppo intellettuale degli anni ’90, verso la mia trasformazione: dall ‘economia’ all ‘ecologia’, dal breve-termine al lungo-termine.

Se la Carta della Terra riguarda il cambiamento di paradigma dall’economia all’ecologia l’introduzione e l’applicazione del principio di precauzione è uno strumento e una prova importante di questa transizione. Quando ci si domanda sui pro e i contro impliciti nell’estendere sempre più l’applicazione di una tecnologia esistente o di applicare una nuova tecnologia, si fa, in generale, una valutazione dell’impatto ambientale e dei rischi, facendo riferimento alla natura. Bisogna operare calcolando i rischi. A volte è chiaro che certi impatti ambientali non sono in alcun modo accettabili; a volte è chiaro che quegli impatti non costruiscono alcun problema.
Ma in molti altri casi è più complicato. C’è un rischio e si comincia a quantificarlo. L’economista tende a fare un insieme di calcoli per vedere se il beneficio vale il rischio. Facendo così, l’economista ‘sconta’ benefici e rischi, tenendo conto del fattore tempo. Un rischio dopo centinaia di migliaia di anni, per un economista è quasi zero. Per un ecologista è differente: egli non ‘sconta’ i rischi; il futuro- la nostra responsabilità di fronte alle generazioni che verranno- è almeno tanto importante quanto quella verso il presente.
Inoltre, dal punto di vista economico, l’attuale impatto negativo sull’ambiente e la natura deve essere bilanciato dalla capacità delle nuove tecnologie di aumentare il consumo. Il lavoro di un economista è produrre qualcosa perché il capitale è scarso, perciò si adopera opera per l’efficienza del capitale. In ecologia, è esattamente il contrario: non si cerca il risultato nel breve- termine, ma nel lungo- termine.
Gli economisti tendono a dare la priorità alla crescita dell’economia e gli ecologisti tendono a dare la priorità alla protezione dell’ambiente e della natura. A rafforzare la dimensione ecologica, nel calcolare i rischi, si può introdurre il principio di precauzione che dice: “Prevenire i danni è il metodo migliore per proteggere l’ambiente: quando la conoscenza è limitata, bisogna avere un approccio precauzionale” (principio 6). Ne consegue un appello a Essere sicuri che le decisioni vengano prese tenendo conto delle conseguenze a lungo-termine delle attività umane indirette, a lunga distanza e globali.”

Se c’è qualche incertezza rispetto alla relazione dell’impatto ecologico di certi progetti, il principio di precauzione ci richiede di camminare sul lato sicuro della strada, di astenerci da azioni o progetti, da nuove tecnologie, se non si è sicuri. Nella lingua olandese abbiamo un proverbio che dice: “Se non sei sicuro, non attraversare la strada”. Quando diventai Ministro dell’Economia dell’Olanda, nel 1973, e mi concentrai su una politica di “crescita economica selettiva”, cercai di risolvere il grande problema intrinseco alla crescita economica: in che modo può essere compatibile con l’ambiente? Molto tempo dopo, i risultati del Summit di Rio sono diventati l’agenda del XXI secolo. Stabilirono i fondamenti della Carta della Terra.
E, per me, fu l’inizio di una nuova fase del mio pensiero che si era aperta nei decenni precedenti- una trasformazione intellettuale dall’economia all’ecologia, dal breve-termine al lungo-termine, dal confronto inerente alla globalizzazione e alle sue conseguenze, all’armonia insita nel considerare il pianeta una totalità.
Questo processo di riflessione si approfondì alcuni anni più tardi, nel 1994, quando avevo già lasciato il mio incarico politico. Cominciai a pensare a una importante tendenza che stava emergendo in quei giorni- la globalizzazione. Nelle sue sfaccettature e interpretazioni la globalizzazione divenne nota solo dopo la caduta dell’Unione Sovietica, nel 1989. Nello stesso periodo, si organizzarono alcuni Summit globali: sulle donne (Pechino), sulla popolazione e una sana riproduzione (Cairo), sullo sviluppo sociale (Copenhagen) e , naturalmente, il Summit sulla Terra nel 1992 a Rio de Janeiro.

I Summit erano l’esempio dell’interesse per i temi globali ed erano essi stessi l’espressione della globalizzazione- non solo dei governi convenuti, ma, ancora di più, delle organizzazioni non governative (NGO). I Summit, infatti, determinarono impegni globali, come se stessimo diventando sempre di più “un’ unità”. I primi cinque anni del nuovo millennio mostrarono due immagini diverse della globalità. Da una parte, abbiamo visto la Dichiarazione del Millennio, uno straordinario impegno delle Nazioni Unite per lo Sviluppo degli Obiettivi del Millennio e il Summit di Monterrey che ebbe molto successo; dall’altra parte l’attacco dell’11 Settembre, nel 2001 e un’ Al Qaeda molto visibile. Il mondo, e, in particolare, la sua nazione guida, gli USA, cominciarono ad essere ossessionati dalle preoccupazioni per la “sicurezza”.
Scegliendo una strategia classica, ideologica- un colpo preventivo contro una nazione disonesta in vista del rischio costituito dalle armi di distruzione di massa nelle mani di un ‘pilastro del male’- l’amministrazione Bush squalificò le Nazioni Unite non riconoscendo più il loro ruolo nella difesa della sicurezza globale. Si prese atto anche del progressivo logoramento delle Nazioni Unite come produttore e protagonista della giustizia, dovuta all’umiliante mancanza di capacità di risolvere il conflitto tra Israele e la Palestina, tra gli Ebrei e i Palestinesi. C’era la sensazione che la globalizzazione fosse una minaccia per l’Islam e il modo di vivere islamico. E che l’America proteggesse la leadership corrotta del mondo islamico.
Inoltre, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, le vittime palestinesi della violenza e della persecuzione era esistito per 55 anni; e non c’era dubbio, nei cuori e nelle menti del Mussulmani, che questa fosse la prova della continua ingiustizia e delle due misure.
In questo senso, la globalizzazione e l’anti-globalizzazione o l’anti-americanismo, sono l’opposto di tutto ciò che la Carta della Terra sostiene, cioè, la interconnessione dei popoli e delle persone, un futuro comune, con uno sviluppo sostenibile e in armonia. La globalizzazione con il suo successo e le sue conseguenze, sembrava, invece, provocare il contrario: la divisione dei popoli.
Nel frattempo, il bisogno di una risposta globale era diventato più urgente che mai. La risposta non era soltanto a livello dei Summit o delle misure concrete e delle negoziazioni. Era più profonda. Per chiarire questo punto debbo tornare indietro ai primi anni ’90. Dopo dodici anni durante i quali ero stato primo ministro, ebbi più tempo per riflettere. Il concetto di inclusione- includere le persone, includere le dimensioni della vita- divenne per me più importante di ogni altro. Cominciai a capire la necessità del cambiamento di paradigma che era stato avanzato dalle NGO al Summit di Rio.

Una grande influenza in questa trasformazione la ebbe la mia conoscenza del modo di vedere la vita delle popolazioni indigene. Gli indigeni sono riusciti a introdurre a Rio due fondamenti che vanno al di là delle politiche ambientali di riduzione e controllo delle emissioni. La nozione del prevenire il danno, del pensare alle generazioni future, è il primo. Il secondo fondamento che ha trovato a Rio un terreno favorevole, è scaturito dalla relazione degli indigeni con la natura- una relazione di “riverenza”
Mentre l’Illuminismo si è risolto in una esplorazione sempre più estesa e un saccheggio sempre crescente della terra, gli indigeni- economicamente molto più deboli - hanno concetti totalmente differenti. Gli indigeni celebrano la natura. Hanno un concetto diverso del tempo. Pensano alla Madre Terra nei termini dell’ armonia, del rispetto e dell’equità.
Questi fondamenti sono integrati, insieme a molte altre riflessioni, nella Carta della Terra. Per affrontare le grandi sfide e le responsabilità che abbiamo verso la terra e per contrastare le tendenze negative del mondo globalizzante, “noi, i popoli” abbiamo bisogno di una costituzione- un documento che descriva i valori da rispettare e perseguire.
La Carta della Terra è una costituzione olistica, comprensiva e inclusiva.


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