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Nel 1960 vivevo, come oggi, a
Rotterdam- la mia città natale- vicino al fiume Maas. Il
suo porto era diventato uno dei più grandi del mondo per
l’approvvigionamento, esportazione e importazione, delle merci
dal e al cuore dell’Europa. Intorno al porto
l’industria chimica si stava sviluppando rapidamente. L’Olanda
prosperava, ma mi accorgevo che questo aveva i suoi costi.
Il quartiere stava cambiando. Quando ero giovane vedevo le volpi
nei prati; adesso non c’erano nemmeno i pesci nel fiume. Giocando
nel giardino con i miei nipoti, sentivamo l’odore delle sostanze
chimiche e disegnavamo con le dita sulla polvere nera che si accumulava
sul tavolo. Il fiume era tanto inquinato che ci si potevano sviluppare
le fotografie!
Fu allora che cominciai a preoccuparmi, da giovane padre e da uomo
d’affari. La città economicamente prosperava e si espandeva
con la crescita del commercio internazionale, ma qualcosa doveva
cambiare nel suo impatto ambientale. Quando, nel 1971, lessi
‘I limiti della crescita’ del Club di Roma le
mie idee si rafforzarono. Questo Rapporto riguardava le tendenze
globali e considerava l’economia e l’ecologia in una
prospettiva più ampia. Era un’estrapolazione di tendenze
preoccupanti per la natura e, quindi, per il genere umano. In retrospettiva,
qui c’erano già i semi del mio sviluppo intellettuale
degli anni ’90, verso la mia trasformazione: dall ‘economia’
all ‘ecologia’, dal breve-termine
al lungo-termine.
Se la Carta della Terra riguarda il cambiamento
di paradigma dall’economia all’ecologia l’introduzione
e l’applicazione del principio di precauzione è uno
strumento e una prova importante di questa transizione. Quando ci
si domanda sui pro e i contro impliciti nell’estendere sempre
più l’applicazione di una tecnologia esistente o di
applicare una nuova tecnologia, si fa, in generale, una valutazione
dell’impatto ambientale e dei rischi, facendo riferimento
alla natura. Bisogna operare calcolando i rischi. A volte è
chiaro che certi impatti ambientali non sono in alcun modo accettabili;
a volte è chiaro che quegli impatti non costruiscono alcun
problema.
Ma in molti altri casi è più complicato. C’è
un rischio e si comincia a quantificarlo. L’economista tende
a fare un insieme di calcoli per vedere se il beneficio vale il
rischio. Facendo così, l’economista ‘sconta’
benefici e rischi, tenendo conto del fattore tempo. Un rischio dopo
centinaia di migliaia di anni, per un economista è quasi
zero. Per un ecologista è differente: egli non ‘sconta’
i rischi; il futuro- la nostra responsabilità di fronte alle
generazioni che verranno- è almeno tanto importante quanto
quella verso il presente.
Inoltre, dal punto di vista economico, l’attuale impatto negativo
sull’ambiente e la natura deve essere bilanciato dalla capacità
delle nuove tecnologie di aumentare il consumo. Il lavoro di un
economista è produrre qualcosa perché il capitale
è scarso, perciò si adopera opera per l’efficienza
del capitale. In ecologia, è esattamente il contrario: non
si cerca il risultato nel breve- termine, ma nel lungo- termine.
Gli economisti tendono a dare la priorità alla crescita dell’economia
e gli ecologisti tendono a dare la priorità alla protezione
dell’ambiente e della natura. A rafforzare la dimensione ecologica,
nel calcolare i rischi, si può introdurre il principio di
precauzione che dice: “Prevenire i
danni è il metodo migliore per proteggere l’ambiente:
quando la conoscenza è limitata, bisogna avere un approccio
precauzionale” (principio 6). Ne consegue un appello
a “Essere
sicuri che le decisioni vengano prese tenendo conto delle conseguenze
a lungo-termine delle attività umane indirette, a lunga distanza
e globali.”
Se c’è qualche incertezza rispetto alla relazione dell’impatto
ecologico di certi progetti, il principio di precauzione ci richiede
di camminare sul lato sicuro della strada, di astenerci da azioni
o progetti, da nuove tecnologie, se non si è sicuri. Nella
lingua olandese abbiamo un proverbio che dice: “Se non sei
sicuro, non attraversare la strada”. Quando diventai Ministro
dell’Economia dell’Olanda, nel 1973, e mi concentrai
su una politica di “crescita economica selettiva”, cercai
di risolvere il grande problema intrinseco alla crescita economica:
in che modo può essere compatibile con l’ambiente?
Molto tempo dopo, i risultati del Summit di Rio sono diventati l’agenda
del XXI secolo. Stabilirono i fondamenti della Carta della Terra.
E, per me, fu l’inizio di una nuova fase del mio pensiero
che si era aperta nei decenni precedenti- una trasformazione intellettuale
dall’economia all’ecologia, dal breve-termine
al lungo-termine, dal confronto inerente alla globalizzazione e
alle sue conseguenze, all’armonia insita nel considerare il
pianeta una totalità.
Questo processo di riflessione si approfondì alcuni anni
più tardi, nel 1994, quando avevo già lasciato il
mio incarico politico. Cominciai a pensare a una importante tendenza
che stava emergendo in quei giorni- la globalizzazione. Nelle sue
sfaccettature e interpretazioni la globalizzazione divenne nota
solo dopo la caduta dell’Unione Sovietica, nel 1989. Nello
stesso periodo, si organizzarono alcuni Summit globali: sulle donne
(Pechino), sulla popolazione e una sana riproduzione (Cairo), sullo
sviluppo sociale (Copenhagen) e , naturalmente, il Summit sulla
Terra nel 1992 a Rio de Janeiro.
I Summit erano l’esempio dell’interesse
per i temi globali ed erano essi stessi l’espressione della
globalizzazione- non solo dei governi convenuti, ma, ancora di più,
delle organizzazioni non governative (NGO). I Summit, infatti, determinarono
impegni globali, come se stessimo diventando sempre di più
“un’ unità”. I primi cinque anni del nuovo
millennio mostrarono due immagini diverse della globalità.
Da una parte, abbiamo visto la Dichiarazione del Millennio, uno
straordinario impegno delle Nazioni Unite per lo Sviluppo degli
Obiettivi del Millennio e il Summit di
Monterrey che ebbe molto successo; dall’altra parte
l’attacco dell’11 Settembre, nel 2001 e un’ Al
Qaeda molto visibile. Il mondo, e, in particolare, la sua nazione
guida, gli USA, cominciarono ad essere ossessionati dalle preoccupazioni
per la “sicurezza”.
Scegliendo una strategia classica, ideologica- un colpo preventivo
contro una nazione disonesta in vista del rischio costituito dalle
armi di distruzione di massa nelle mani di un ‘pilastro del
male’- l’amministrazione Bush squalificò le Nazioni
Unite non riconoscendo più il loro ruolo nella difesa della
sicurezza globale. Si prese atto anche del progressivo logoramento
delle Nazioni Unite come produttore e protagonista della giustizia,
dovuta all’umiliante mancanza di capacità di risolvere
il conflitto tra Israele e la Palestina, tra gli Ebrei e i Palestinesi.
C’era la sensazione che la globalizzazione fosse una minaccia
per l’Islam e il modo di vivere islamico. E che l’America
proteggesse la leadership corrotta del mondo islamico.
Inoltre, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati,
le vittime palestinesi della violenza e della persecuzione era esistito
per 55 anni; e non c’era dubbio, nei cuori e nelle menti del
Mussulmani, che questa fosse la prova della continua ingiustizia
e delle due misure.
In questo senso, la globalizzazione e l’anti-globalizzazione
o l’anti-americanismo, sono l’opposto di tutto ciò
che la Carta della Terra sostiene, cioè, la interconnessione
dei popoli e delle persone, un futuro comune, con uno sviluppo sostenibile
e in armonia. La globalizzazione con il suo successo e le sue conseguenze,
sembrava, invece, provocare il contrario: la divisione dei popoli.
Nel frattempo, il bisogno di una risposta globale era diventato
più urgente che mai. La risposta non era soltanto a livello
dei Summit o delle misure concrete e delle negoziazioni. Era più
profonda. Per chiarire questo punto debbo tornare indietro ai primi
anni ’90. Dopo dodici anni durante i quali ero stato primo
ministro, ebbi più tempo per riflettere. Il concetto di inclusione-
includere le persone, includere le dimensioni della vita- divenne
per me più importante di ogni altro. Cominciai a capire la
necessità del cambiamento di paradigma che era stato avanzato
dalle NGO al Summit di Rio.
Una grande influenza in questa trasformazione la ebbe la mia conoscenza
del modo di vedere la vita delle popolazioni indigene. Gli indigeni
sono riusciti a introdurre a Rio due fondamenti che vanno al di
là delle politiche ambientali di riduzione e controllo delle
emissioni. La nozione del prevenire il danno, del pensare alle generazioni
future, è il primo. Il secondo fondamento che ha trovato
a Rio un terreno favorevole, è scaturito dalla relazione
degli indigeni con la natura- una relazione di “riverenza”
Mentre l’Illuminismo si è risolto in una esplorazione
sempre più estesa e un saccheggio sempre crescente della
terra, gli indigeni- economicamente molto più deboli - hanno
concetti totalmente differenti. Gli indigeni celebrano la natura.
Hanno un concetto diverso del tempo. Pensano alla Madre Terra nei
termini dell’ armonia, del rispetto e dell’equità.
Questi fondamenti sono integrati, insieme a molte altre riflessioni,
nella Carta della Terra. Per affrontare le grandi sfide e le responsabilità
che abbiamo verso la terra e per contrastare le tendenze negative
del mondo globalizzante, “noi, i popoli” abbiamo bisogno
di una costituzione- un documento che descriva i valori da rispettare
e perseguire.
La Carta della Terra è una costituzione olistica, comprensiva
e inclusiva.
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