A COSA SERVE L'EDUCAZIONE?
Sei miti sui fondamenti dell’educazione moderna e sei nuovi principi per sostituirli
di David W. Orr, 1991
traduzione di Franca Bossalino

Adattamento del discorso ai laureandi del 1990 nel College dell’Arkansas.

Se oggi è una tipica giornata sul pianeta Terra, perderemo 116 miglia quadrate di foresta pluviale, o circa un acro al secondo. Perderemo ancora 72 miglia quadrate di deserti come risultato della incompetente gestione umana e della sovrappopolazione. Perderemo dalle 40 alle 100 specie e nessuno sa se il numero sia 40 o 100. Oggi la popolazione umana aumenterà di 250.000 individui. E oggi aggiungeremo 2.700 tonnellate di carbonio. Questa notte la Terra sarà un po’ più calda, le sue acque più acide e il tessuto della vita più logoro.

La verità è che molte cose sulle quali si basa la vostra salute futura e dalle quali dipende la prosperità corrono un serissimo pericolo: la stabilità del clima, la capacità di recupero e la produttività dei sistemi naturali, la bellezza del mondo naturale e la diversità biologica.

Vale la pena di notare che questo non è opera di persone ignoranti. E’ piuttosto e in grande misura il risultato del lavoro di gente con tanto di lauree e di specializzazioni. Elie Wiesel ha fatto una simile affermazione al Forum globale di Mosca lo scorso inverno quando disse che i progettisti e i responsabili dell’Olocausto erano gli eredi di Kant e Hegel. Per molti aspetti i tedeschi erano il popolo più educato della Terra ma la loro educazione non servì ad ostacolare la barbarie. Che cosa c’era di sbagliato nella loro educazione? Nelle parole di Diesel: “Poneva l’enfasi sulle teorie invece che sui valori, sui concetti piuttosto che sugli esseri umani, sull’astrazione piuttosto che sulla consapevolezza, sulle risposte invece che sulle domande, sull’ideologia e l’efficienza, piuttosto che sulla coscienza”.

Lo stesso si potrebbe dire del modo in cui la nostra educazione ci ha preparato a pensare il mondo naturale. Non è una questione che ha avuto conseguenze trascurabili, il fatto che i soli popoli che hanno vissuto in modo sostenibile sul pianeta per un certo periodo di tempo, non sapessero leggere o, come gli Amish, non abbiano fatto della lettura un feticcio. Il mio parere è semplicemente che l’educazione non è garanzia di decenza, prudenza o saggezza. Più educazione di questo stesso tipo aggraverà soltanto i nostri problemi. Questo non è un argomento in favore dell’ignoranza quanto piuttosto una dichiarazione che il valore dell’educazione deve adesso essere misurato rispetto agli standard della decenza e della sopravvivenza umana- temi che si profilano minacciosi davanti a noi nel decennio degli anni ’90 e oltre. Non è l’educazione che ci salverà, ma l’educazione di un certo tipo.

Che cosa c’è di sbagliato nella cultura e nell’educazione contemporanea?

Nella letteratura c’è qualche intuizione: il Faust di Christopher Marlowe, che baratta la sua anima per la conoscenza e per il potere; il dottor Frankenstein di Mary Shelley, che rifiuta di assumersi la responsabilità della sua creazione; il capitano Ahab di Herman Melville che dice “tutti i miei mezzi sono sani, il mio movente e l’oggetto sono folli”. In questi personaggi incontriamo l’essenza della spinta moderna a dominare la natura.

Storicamente, l’unione proposta da Francis Bacon tra la conoscenza e il potere prefigura l’alleanza contemporanea tra governo, affari e conoscenza che ha determinato tanti comportamenti pericolosi. La separazione dell’intelletto da parte di Galileo prefigura il dominio della mente analitica sulla parte preposta alla creatività, allo spirito e all’integrità. E nell’epistemologia di Cartesio si trovano le radici della separazione radicale tra il sé e l’oggetto. I tre insieme hanno gettato le fondamenta dell’educazione moderna: fondamenta oggi racchiuse sotto forma di miti che abbiamo finito con l’accettare senza domande. Ne suggerisco sei.

Primo: il mito che l’ignoranza sia un problema risolvibile. L’ignoranza non è un problema risolvibile, ma una inevitabile parte della condizione umana. L’avanzamento della conoscenza porta sempre con sé l’avanzamento di qualche forma di ignoranza. Nel 1930, dopo che Thomas Midgely Jr. scoprì i CFC- clorofluorocarburi- quello che prima era stata ignoranza superficiale diventò, nella conoscenza che l’uomo aveva della biosfera, un vuoto che minacciava la vita. A nessuno venne in mente di domandare “Che cosa provoca questa sostanza e a che cosa?” finché nei primi anni ’70 e attorno agli anni ’90 i clorofluorocarburi non crearono un assottigliamento generale dello strato di ozono. Con la scoperta dei CFC la conoscenza crebbe; ma come la circonferenza di un cerchio in espansione, crebbe anche l’ignoranza.

Secondo: il mito che con sufficiente conoscenza e tecnologia noi possiamo gestire il pianeta Terra… “gestire il pianeta”. Ma la complessità della Terra e dei suoi sistemi di vita non può mai essere gestita in modo sicuro. L’ecologia dello strato superficiale del suolo è ancora ampiamente sconosciuta come pure la sua relazione con il sistema più grande della biosfera.
Quello che può essere gestito siamo noi: i desideri umani, l’economia, la politica e le comunità. Ma la nostra attenzione è attratta da quelle cose che evitano le scelte difficili implicite nella politica, nella moralità, nell’etica e nel senso comune. Ha molto più senso rimodellare noi stessi per adattarci a un pianeta finito che non tentare di rimodellare il pianeta per adattarlo ai nostri bisogni infiniti.

Terzo: il mito che la conoscenza stia aumentando e che implicitamente stia aumentando la bontà umana. C’è un’esplosione di informazione, col che intendo un rapido aumento di dati, parole e scritti. Ma questa esplosione non va presa per una crescita della conoscenza e della saggezza, che non si possono misurare tanto facilmente. Quello che si può dire onestamente è che qualche conoscenza sta aumentando mentre altri tipi di conoscenza si stanno perdendo. David Ehrenfeld ha precisato che i dipartimenti di biologia non assumono più personale docente in aree quali la sistematica, la tassonomia o l’ornitologia. In altre parole, la conoscenza importante si sta perdendo a causa della recente sopravvalutazione della biologia molecolare e dell’ingegneria genetica che sono più lucrative, ma non più importanti, delle aree di analisi. Ancora non abbiamo la scienza della salute della terra che Aldo Leopold auspicava mezzo secolo fa.

Non è solo la conoscenza in certi campi che stiamo perdendo, ma anche la conoscenza vernacolare, cioè la conoscenza che la gente ha dei luoghi in cui vive. Nelle parole di Barry Lopez:
“[Sono] costretto a realizzare che qualcosa di strano, se non di pericoloso, ci sta aspettando. Anno dopo anno il numero di individui che hanno un’ esperienza diretta della terra sta esaurendosi. La popolazione rurale continua a spostarsi nelle città… nella scia di questa perdita di conoscenza personale e locale, la conoscenza da cui deriva la geografia reale, con cui un paese deve alla fine confrontarsi, è diventato qualcosa di difficile da definire ma che io credo sia qualcosa di sinistro e destabilizzante”.

Nella confusione dei dati con la conoscenza c’è un errore più profondo, cioè, quello di credere che l’istruzione ci renda migliori. Ma l’istruzione, come Loren Eisley disse una volta, è senza fine e “da sola non ci renderà persone etiche”. In sostanza, può accadere che sia la conoscenza del bene ad essere la più minacciata fra tutte le nostre conquiste. Tutto considerato, è possibile che stiamo diventando più ignoranti delle cose che dobbiamo sapere per vivere bene e in modo sostenibile sulla terra.

Quarto: il mito che caratterizza l’educazione superiore, e cioè che possiamo adeguatamente rimontare quello che abbiamo smontato. Nel curriculum moderno abbiamo frammentato il mondo in pizzichi e bocconi chiamati discipline e subdiscipline. Col risultato che dopo 12 o 16 o 20 anni, la maggior parte degli studenti si laurea senza alcun senso dell’unità delle cose, con gravi conseguenze. Per esempio, normalmente produciamo economisti che non hanno la più rudimentale conoscenza dell’ecologia. Questo spiega perché il nostro sistema nazionale di fare i bilanci non sottrae i costi dell’impoverimento biotico, dell’erosione del suolo, dell’avvelenamento dell’aria o dell’acqua e dell’esaurimento delle risorse, dal prodotto interno lordo -PIL. Aggiungiamo il prezzo della vendita di una unità di misura di grano al PIL, mentre ci dimentichiamo di sottrarre tre unità di misura dello strato superficiale di suolo perso durante la sua produzione. Come risultato di un’educazione incompleta, abbiamo ingannato noi stessi pensando di essere più ricchi di prima.

Quinto: il mito che lo scopo dell’educazione sia quello di darvi i mezzi per aumentare la mobilità e raggiungere il successo. Thomas Merton una volta lo definì “produzione di massa di individui letteralmente inadatti per qualunque cosa tranne che partecipare a una parodia elaborata e completamente artificiale”. Quando gli fu chiesto di scrivere a proposito del proprio successo, Merton rispose dicendo che “se è accaduto che io abbia scritto una volta un best seller, è stato un puro incidente, dovuto alla disattenzione e all’ingenuità e avrò molta cura a non farlo ancora.” Il suo consiglio agli studenti era di “essere qualunque cosa vi piaccia, folli, ubriaconi, bastardi di qualunque genere e forma, ma evitate ad ogni costo una sola cosa: il successo”.

Il fatto è, semplicemente, che il pianeta non ha bisogno di un numero maggiore di persone di ‘successo’. Ma ha disperatamente bisogno di un numero maggiore di pacificatori, di curatori, di restauratori, di cantastorie, e di amanti di ogni genere. Ha bisogno di gente che abbia il coraggio morale e la volontà di unirsi per combattere per rendere il mondo abitabile ed umano. E questi bisogni hanno poco a che fare con il successo così come la nostra cultura lo ha definito.

Sesto e ultimo: il mito che la nostra cultura rappresenti l’apice della conquista umana: solo noi siamo moderni, tecnologici, e sviluppati. Questo naturalmente, rappresenta l’arroganza culturale della peggior specie, e una rozza e distorta lettura della storia e dell’antropologia. Recentemente questa visione ha significato che noi abbiamo vinto la guerra fredda e che il trionfo del capitalismo sul comunismo è completo. Il comunismo ha fallito perché ha prodotto troppo poco a un costo troppo alto. Il capitalismo ha fallito perché ha distrutto tutta in una volta la moralità. Questo non è il mondo felice che descrivono alcuni inetti pubblicisti e politici. Abbiamo costruito un mondo di ricchezza sibaritica per pochi e una povertà calcuttiana per una classe povera sempre crescente. Nella sua forma peggiore è un mondo di conflitti sulle strade, di violenza insensata, e della più disperata miseria. Il fatto è che viviamo in una cultura che si sta disgregando. Nelle parole di Ron Miller, editore della ‘Holistic Review’:
“La nostra cultura non nutre quanto c’è di migliore e più nobile nello spirito umano. Non coltiva la visione, l’immaginazione, l’estetica o la sensibilità dello spirito. Non incoraggia la gentilezza, la generosità, la cura o la compassione. Sempre più, nell’ultima parte del secolo XX secolo, la visione del mondo economica/tecnocratica/statalista è diventata un mostro che distrugge tutto ciò che nell’animo umano ama e afferma la vita”.

A cosa deve servire l’educazione?

Misurata rispetto all’agenda della sopravvivenza umana, come potremmo ripensare l’educazione? Suggerisco sei principi.

Primo: Tutta l’educazione è educazione ecologica. Da ciò che includiamo o escludiamo insegniamo ai nostri studenti che sono o non sono parte della natura. Insegnare economia, ad esempio, senza riferirsi alle leggi della termodinamica o a quelle dell’ecologia è insegnare una lezione ecologicamente importante: che la fisica e l’ecologia non hanno niente a che fare con l’economia. E questo è maledettamente sbagliato. Lo stesso è vero per tutto il curriculum.

Secondo: deriva dal concetto greco di paidéia. L’obiettivo dell’educazione non è la padronanza di una materia ma della propria persona. La materia è semplicemente lo strumento. Come qualcuno userebbe un martello e un scalpello per modellare un blocco di marmo, un altro usa le idee e la conoscenza per forgiare la propria personalità. In generale lavoriamo in una confusione di mezzi e fini, pensando che l’obiettivo dell’educazione sia riempire la testa dello studente di ogni genere di fatti, tecniche, metodi e informazioni, trascurando in che modo verranno usati e che effetti avranno. I Greci lo sapevano meglio di noi.

Terzo: la conoscenza porta con sé la responsabilità di verificare che venga usata bene in tutto il mondo. I risultati di molta ricerca contemporanea somigliano a quelli prefigurati da Mary Shelley: mostri della tecnologia e suoi sottoprodotti, di cui nessuno si assume la responsabilità e di cui non ci si aspetta nemmeno che qualcuno se la prenda. Di chi è la responsabilità di Love Canal? Di Chernobyl? Del buco dell’ozono? Della fuoriuscita del petrolio a Valdez? Ciascuna di queste tragedie è stata possibile a causa della conoscenza acquisita della quale nessuno, alla fine, era responsabile. Adesso si può finalmente considerare tutto ciò per quello che è stato: un problema di scala. La conoscenza per fare cose grandi e rischiose ha di gran lunga superato la nostra capacità di usarla in modo responsabile. Molta di questa conoscenza non si può usare responsabilmente, cioè in modo sicuro e per fini buoni e coerenti.

Quarto: non possiamo dire che conosciamo qualcosa finché non consideriamo gli effetti di questa conoscenza sulle persone reali e sulle loro comunità. Sono cresciuto vicino a Youngstown in Ohio, che è stata ampiamente distrutta dalle decisioni delle aziende di “disinvestire” nell’economia della regione. In questo caso, i tecnici, educati a effettuare acquisti vantaggiosi, a ridurre le tasse, e alla mobilità del capitale, hanno fatto quello che nessun esercito invasore avrebbe potuto fare: hanno distrutto una città americana con totale impunità in nome di qualche cosa denominato “bottom line”- risultato finale. Ma il risultato finale per la società include altri costi, quelli della disoccupazione, del crimine, dell’aumento dei divorzi, dell’alcolismo, dell’abuso sui minori, della perdita dei risparmi e delle vite distrutte. In questo esempio quello che era stato insegnato nelle scuole aziendali e nei dipartimenti di economia non includeva il valore delle comunità sane, o i costi umani di una razionalità economica miope e distruttiva che considera l’efficienza e le astrazioni economiche al di sopra delle persone e delle comunità.

Quinto: questo principio è preso da William Blake. Ha a che fare con l’importanza dei “minuti particolari” e del potere dell’esempio sulle parole. Gli studenti sentono parlare di responsabilità globale mentre vengono educati all’interno di istituzioni che spesso investono le loro finanze nelle cose più irresponsabili. Le lezioni che vengono loro insegnate sono quelle dell’ipocrisia e in ultima analisi, della disperazione. Gli studenti imparano, senza che nessuno lo dica mai, che sono impotenti nel superare la distanza tra ideali e realtà. Quello di cui c’è un bisogno disperato sono docenti e amministratori che forniscano modelli di integrità, di cura, di delicatezza e di istituzioni che siano capaci di incorporare completamente gli ideali in tutte le loro operazioni.

E infine, vorrei proporre che il modo in cui avviene l’insegnamento è altrettanto importante del contenuto dei corsi stessi. Il processo è importante nell’insegnamento. I corsi insegnati come corsi teorici tendono a indurre passività. Gli interni delle aule creano l’illusione che l’apprendimento avvenga soltanto dentro le quattro mura isolate da ciò che gli studenti chiamano con apparente ironia “il mondo reale”. Sezionare rane nelle aule di biologia, insegna cose sulla natura che nessuno professerebbe verbalmente. L’architettura del campus è pedagogia cristallizzata che spesso rafforza la passività, il monologo, il dominio, e l’artificialità. La mia opinione è semplicemente che gli studenti imparano in vari modi ingegnosi, al di là del contenuto dei corsi.

Un compito per la facoltà

Se l’educazione deve essere misurata rispetto agli standard della sostenibilità, che cosa si può fare? Voglio fare quattro proposte.
La prima è che all’interno della facoltà ci si impegni in un dialogo allargato sul modo in cui facciamo il nostro mestiere di educatori. I quattro anni passati qui dentro rendono i laureati dei cittadini del pianeta migliori o, come dice Wendell Berry, dei “vandali professionisti itineranti?” Questa scuola contribuisce allo sviluppo di un’economia regionale sostenibile, o, nel nome dell’efficienza, al processo di distruzione?

La seconda è quella di esaminare i flussi di risorse di questa facoltà: cibo, energia, acqua, materiali e rifiuti. Docenti e studenti dovrebbero studiare insieme i pozzi, le miniere, le fattorie, gli allevamenti e le foreste che sostengono il campus e anche le discariche dove mandiamo i nostri rifiuti. Collettivamente, si deve dare inizio a un processo di ricerca dei modi di orientare il potere d’acquisto di questa istituzione al fine di sostenere alternative migliori che facciano meno danni all’ambiente, che riducano le emissioni di CO2 e l’uso di sostanze tossiche, che promuovano l’efficienza energetica e l’uso dell’energia solare, che aiutino a costruire un’economia regionale sostenibile, che riducano i costi a lungo termine e che diventino un esempio per le altre istituzioni. I risultati di questi studi dovrebbero intrecciarsi nel curriculum come corsi interdisciplinari, seminari,conferenze e ricerca. Nessuno studente dovrebbe laurearsi senza aver capito come analizzare i flussi delle risorse e senza aver avuto l’opportunità di partecipare all’invenzione di soluzioni reali a problemi reali.

La terza proposta è quella di ri-esaminare in che modo funzionano le nostre dotazioni. Sono investite secondo i principi di Valdez? Sono investiti in compagnie che fanno cose responsabili di cui il mondo ha bisogno? Può una parte essere investita localmente per influenzare l’efficienza energetica e l’evoluzione di un’economia sostenibile nella regione?

Infine, propongo di definire un insieme di obiettivi di alfabetizzazione ecologica degli studenti. Nessuno studente dovrebbe laurearsi in questa o da qualunque altra istituzione educativa senza una fondamentale comprensione di quanto segue:

• le leggi della termodinamica
• i principi fondamentali dell’ecologia
• la capacità di carico
• l’energetica
• l’analisi dei minimi costi, dell’uso finale
• come vivere bene in un luogo
• i limiti della tecnologia
• la scala appropriata
• l’agricoltura e la silvicoltura sostenibili
• la stabilità dell’economia
• l’etica ambientale

Gli studenti di questa scuola, usando le parole di Aldo Leopold “sanno di essere soltanto delle rotelle di un meccanismo ecologico, tali che, se funzioneranno secondo quel meccanismo, la loro salute mentale e la loro ricchezza materiale potranno espandersi indefinitamente ( e ) se invece si rifiuteranno di farlo, quel meccanismo li ridurrà alla fine in polvere.” Leopold domandava: “Se l’educazione non ci insegna queste cose, a che cosa serve?”

Testo originale in inglese

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